Dopo il successo planetario ottenuto con la loro personale e al tempo stesso fedelissima rivisitazione dell’iconico detective di Baker Street, Steven Moffat e Mark Gatiss tornano con la trasposizione di un altro grande classico di cinema, letteratura e qualsiasi altra forma di arte e comunicazione: Dracula. L’operazione è riuscita a patto però che lo spettatore stia al gioco e accetti di buon grado lo spirito dell’adattamento che non è quello di consegnare un nuovo iconico Conte Dracula al mondo, ma quello di divertirsi con il personaggio esattamente come un bambino si divertirebbe a smontare un gioco per vedere cosa c’è dentro e capirne il meccanismo, salvo poi lasciare pezzi in giro per casa e non riuscire a ricomporlo perfettamente, ma poco male: non era quello il punto.

Ma facciamo un passo indietro. Per capire e soprattutto godersi il Dracula firmato da Steven Moffat e Mark Gatiss è necessario spendere prima qualche parola sul loro adattamento di Sherlock Holmes.

Sembrava non solo impossibile ma anche sconsigliabile staccare Sherlock Holmes dalla Londra vittoriana, spogliarlo di inverness, pipa, deerstalker (elementi che per altro non dobbiamo a Conan Doyle ma al disegnatore Sidney Padget) e invece questo è tutto quello che Moffat e Gatiss hanno proceduto a fare con il loro Sherlock dimostrando che il cuore, il fascino e l’attrattiva del personaggio non risiedono nei suoi aspetti più esteriori e che l’iconicità è tale solo se sopravvive ai suoi simboli più manifesti. Il grande merito di Moffat e Gatiss è stato quello di dimostrare che Sherlock Holmes non aveva bisogno di essere modernizzato ma siamo noi lettori e spettatori ad avere bisogno della mente brillante del Moffat e del Gatiss di turno per capirlo.

Con lo Sherlock di Moffat e Gatiss è però accaduto anche qualcos’altro: la qualità, l’originalità e l’inventiva della serie sono state veicolate da due attori straordinariamente in parte fino al punto da rendere meritatamente Benedict Cumberbatch un idolo pop in grado di spostare masse virtuali e reali nel giro di un giorno dalla messa in onda del primo episodio: ricordo bene quella gioiosa follia collettiva perché io c’ero.

La quarta e la quinta stagione di Sherlock hanno segnato però un protrarsi eccessivo e fastidioso di una storia che aveva già detto e dato tutto nel miglior modo possibile e Moffat, come per altro accaduto durante il periodo della sua reggenza in Doctor Who, ha dimostrato di essere quasi insuperabile sulla breve distanza ma di essere completamente prono alla sua stessa hubris sulla lunga: non a caso quella che forse è la migliore puntata del Dottore è sì firmata da Moffat, ma è assolutamente autoconclusiva. Un ulteriore potenziale problema è rappresentato dalla gestione opinabile e discutibile dei personaggi femminili in cui incorre Moffat: non sempre, ma con una frequenza sufficiente da temere l’idea che l’autore decidesse di mettere mano a una protagonista.

Con questa enorme premessa gravida di un successo folgorante, carica di aspettative, ma anche foriera di legittime perplessità, arriva il Dracula firmato Moffat e Gatiss. L’idea che i due riservassero il trattamento Sherlock a Dracula ha eccitato fantasie, promosso dibattiti, creato aspettative altissime ma anche formato bande organizzate pronte a sparare sui due in caso di fallimento.

Come detto all’inizio, la serie funziona ma a patto che gli spettatori stiano al gioco senza fare troppe domande e accettando l’amichevole trolling di Moffat che vuole divertirsi con lo spettatore e non a sue spese.

[Da qui in avanti SPOILER]

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Moffat e Gatiss sanno perfettamente che il pubblico si approccerà a Dracula pensando “ecco il Dracula dei due di Sherlock” e sono infatti i primi a chiamare direttamente in causa il detective senza giri di parole “Ho un amico detective a Londra”dice Suor Agatha. Non solo, il confronto tra suor Agatha e Dracula è sfacciatamente una rivisitazione del duello tra il loro Sherlock e il loro Moriarty, e perfino nella cifra stilistica troviamo forti assonanze: Paul MaGuigan dà la sua impronta al terzo e conclusivo episodio così come aveva fatto per A Study in Pink.

Evasa la pratica Sherlock i due si divertono mettendo in scena nel secondo episodio una struttura narrativa cara all’altra grande autrice di gialli – Agatha Christie – ben sapendo che da oltre un secolo infuria una disputa tra i fan di Conan Doyle e quelli di Lady Agatha e che molti ritengono sacrilego mischiare i due approcci. Ma ecco che gli autori decidono che per la traversata via mare del Conte verso l’Inghilterra l’ideale è far ricorso alla struttura del whodunnit richiamando svariati lavori di Lady Agatha da Assassino sull’Orient Express, a Dieci Piccoli Indiani a Trappola per Topi con il classico impianto che prevede un gruppo di persone confinate forzatamente nello stesso spazio insieme a un assassino la cui identità è da svelare prima che uccida tutti.

Ma vediamo meglio come si presenta questo Dracula. Siamo nella Transilvania del 1897, il Conte Dracula sta progettando di raggiungere l’Inghilterra e per farlo ha bisogno di avere proprietà a suo nome al momento dell’arrivo e un viaggio che soddisfi tutti i requisiti necessari alla condizione di vampiro. Il giovane avvocato Jonathan Harker raggiunge il Conte nella sua dimora lugubre e millenaria e ne diventa ospite, pasto e trastullo. La prima parte dell’episodio è accademica seppure di buona fattura e ci mostra tutto quello che prevedibilmente possiamo aspettarci dalla storia, finché il ruolo di suor Agatha diventa determinante e la narrazione si focalizza su questa donna audace, acuta e illuminista che vuole smontare il rompicapo horror e vedere come funziona. Trasformare Van Helsing nella brillante suor Agatha Van Helsing è il miglior risultato che va ascritto al merito di Moffat e Gatiss.

La storia è più o meno quella che conosciamo con tutti i personaggi a noi famigliari anche se rivisitati per servire al modo in cui gli autori vogliono raccontare la loro versione di Dracula, e infatti il ruolo di Mina si riduce a poco più di un mezzo per agganciare i primi due episodi al nostro 2020, anno in cui è ambientato il terzo e conclusivo episodio. Con un azzardo – che poteva riuscire oppure no – Moffat e Gatiss staccano il loro personaggio da manieri, conventi, casse di legno, trine e merletti, per sbalzare Dracula e spettatori nel “nuovo mondo”. Dopo lo spaesamento nostro e suo, la manovra funziona soprattutto se intesa come divertissement grazie al quale gli autori si tolgono lo sfizio di vedere come il loro Dracula reagirebbe contestualizzato nel nuovo millennio divertendosi a esporlo ai prodigi dell’età moderna dalla prosaica conoscenza del frigorifero, fino al mirabolante uso della tecnologia e dei social.

Ma il fulcro della storia resta sempre lo stesso. Nel 2020 la coscienza di suor Agatha è nel sangue della sua pronipote che ne ha ereditato la missione, la mente e le fattezze, ed è così che nel nuovo millennio riesce a concludere la partita aperta oltre un secolo prima risolvendo l’enigma: perché Dracula teme il crocifisso? Per dare una risposta Agatha è riuscita ad andare a fondo dell’animo del conte che sarà anche una belva immortale e predatoria, ma al tempo stesso resta un essere figlio del suo tempo, legato al lignaggio e alla nozione di onore e valore che per secoli ha sostenuto la sua famiglia composta da generazioni di valorosi condottieri, una gloriosa linea di combattenti che si è interrotta proprio con lui. Mentre gli antenati, il padre, i fratelli, figli e nipoti hanno affrontato e trovato la morte in battaglia ricevendo una gloriosa sepoltura, Dracula ha continuato per secoli né vivo né morto a strisciare nell’ombra, nutrendosi di prede inermi, dormendo nello sporco mentre tutta la sua famiglia riposava sepolta con tutti gli onori. La repulsa del crocifisso è dovuta, più che ai fraintesi motivi religiosi, alla vergognosa paura di quello che rappresenta: la sconfitta della paura della morte. Tutto il resto, aglio, sole, inviti è solo superstizione tramandata per secoli a cui perfino Dracula si era ridotto a credere.

Ora, l’intuizione di Agatha purtroppo arriva quasi di punto in bianco e sarebbe stato molto più significativa se nel corso degli episodi fossero stati disseminati indizi da poter rileggere alla luce di questa rivelazione. La sorte di Lucy Westenra che avrebbe dovuto instradarci verso questo epilogo è infatti viziata dal modo in cui è stato reso il personaggio: Dracula è attratto dalla fascinazione priva di paura che la ragazza prova verso la morte, ma in realtà quello che arriva è la superficialità di una giovane donna che più che essere innamorata della morte è semplicemente talmente vuota da essere annoiata dalla vita.

Ma questo non è certo l’unico momento debole delle tre puntate, ci sono anzi svariati momenti che vanno accettati così come sono senza la maleducazione di fare troppe domande, la serie può quindi non convincere o non piacere, ma una cosa è certa: Dolly Wells (suor Agatha/Zoe) e Claes Bang (Dracula) sono due interpreti straordinari e anche se non sono diventati una overnight sensation come è accaduto per Cumberbatch, e in misura minore con Martin Freeman, di sicuro con questa serie hanno trovato il loro posto al sole (pun intended).



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Mara Ricci

Serie tv, Joss Whedon, Jane Austen, Sherlock Holmes, Carl Sagan, BBC: unite i puntini e avrete la mia bio. Autore e redattore per Serialmente, per tenermi in esercizio ho dedicato un blog a The Good Wife.

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